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Sin dall'antichità l’uomo ha tentato di studiare e definire la “felicità”.I testi cinesi compilati tra il I e il V secolo a.C. mostrano che la parola felicità - Fú (?) - era usata per significare “fortunato, tranquillo e privo di ostacoli”. I filosofi greci discussero e studiarono a fondo la felicità intorno al III secolo a.C., utilizzando la parola “eudaimonia” che conteneva una nozione di fortuna: avere un buon “daimon” (uno spirito guida) dalla propria parte era considerato fortunato o di buon auspicio. L'eudaimonia, tuttavia, comprendeva anche l'azione umana, in quanto richiedeva di vivere una vita buona e virtuosa. Il ruolo percepito del comportamento e delle abitudini nell'influenzare la felicità è aumentato durante l'Illuminismo, con la sua enfasi sull'autonomia individuale. L'idea illuministica di felicità è persino incarnata nella Dichiarazione d'Indipendenza americana, che definisce la ricerca della felicità come un diritto fondamentale.Negli ultimi 130 anni le scienze umane hanno studiato le emozioni umane focalizzandosi in partenza sugli stati d’insofferenza, malattia e patologia. Più recentemente, la psicologia e la neurobiologia hanno invece cominciato a studiare la “felicità” come stato emotivo in sé: le sue implicanze fisiologiche nel diffondere uno stato di benessere nell’individuo, le componenti culturali (ciò che è fonte di felicità per una determinata cultura, non lo è affatto per altre), il fattore ereditario intergenerazionale, il concetto che la volontà/coscienza umana può rimodellare i circuiti neurologici che sono alla base del benessere (neuroplasticità).
Così, si è arrivati ad un concetto di felicità che abbraccia queste certezze:
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