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Cento auguri a Gianni Rodari

23/10/2020
Gianni Rodari è considerato il più importante scrittore italiano per bambini del XX secolo.
Cade oggi, 23 ottobre 2020, il centenario dalla sua nascita. Vogliamo qui ricordarlo, in particolare attraverso i suoi legami con la provincia di Varese.

Gianni Rodari nasce ad Omegna il 23 ottobre 1920 in una piccola famiglia di fornai. In seguito alla prematura morte del padre Giuseppe, nel 1929 Gianni si traferisce a Gavirate, paese natale materno, con la madre Maddalena e il fratello Cesare. A Gavirate cresce e studia, diplomandosi nel 1937 alle magistrali.
Dal 1938 inizia la sua carriera di maestro, prima come precettore a Sesto Calende e poi presso le scuole elementari di Brusimpiano, Ranco, Cardana di Besozzo e Uboldo.
Durante la Seconda Guerra Mondiale entra nella Resistenza lombarda, esperienza che lo avvicinerà alla sinistra italiana.
Dagli anni Cinquanta collabora con diverse pubblicazioni per l’infanzia. È scrivendo per la “Domenica dei Piccoli”, il “Pioniere” ed altre riviste che si appassiona alla narrativa per l'infanzia. Diventa anche autore di programmi televisivi per bambini per la Rai e la BBC.
Nel 1970 vince il prestigioso Premio Hans Christian Andersen, il più importante riconoscimento internazionale nella narrativa per l’infanzia. Alla consegna del premio disse:
«Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo…»

Muore a Roma il 14 aprile 1980 in seguito a complicazioni di un intervento chirurgico.

Sono moltissimi gli appuntamenti ed eventi che lo ricordano nell’anno del centenario, organizzati non solo in Italia ma anche in Austria, Vietnam, Stati Uniti e Germania, dove era molto conosciuto ed amato.
A Omegna, suo paese natale, è stato creato il “Parco della fantasia Gianni Rodari”, con molte attività per scuole e famiglie, alla scoperta delle sue  favole e del mondo dell'immaginazione.
L’Università degli Studi dell’Insubria ospiterà sabato 24 ottobre il webinar gratuito “La grammatica di Rodari fuori e dentro le regole”. Gli interventi saranno visibili sul canale YouTube del Comune di Varese.
A Gavirate, nel comune che l’ha cresciuto, si terranno eventi per tutto il fine settimana:
- Venerdì 23 ottobre ore 21.00 presso l’auditorium comunale verrà presentato un numero speciale di “Menta e Rosmarino” dedicato a Gianni Rodari. (per prenotazioni bibliotecagavirate@gmail.com/0332 748278)
- Sabato 24 ottobre ore 11.00 si terrà l’inaugurazione di un’installazione dedicata a Rodari. L’opera, sita di fianco alla casa in cui crebbe lo scrittore, è stata realizzata da Alberto Frigo Cesare Sgherbini.
- Fino a domenica 25 ottobre sarà aperta la mostra collettiva “Omaggio a Gavirate e a Gianni Rodari

I suoi scritti sono disseminati di richiami al Varesotto, probabili ricordi d’infanzia. Eccone alcuni:
[vc_toggle title="Il libro degli errori, Einaudi, Torino 1964 - Il viaggio del grillo" style="arrow"]C’era una volta un grillo, bravissimo cantore,
sapeva a memoria l’Aida e il Trovatore.

Era un tenore, ma anche un tantino soprano
E andò a cantare alla Scala di Milano.

Per risparmiare i soldi – il treno costava troppo-
viaggiava a piedi, anzi, viaggiava a piede zoppo:

era un grillo istruito, sempre il primo a scuola,
viaggiando con un solo piede consumava una scarpa sola.

Suonano le otto a Somma Lombardo,
si sente dire che il grillo è in ritardo.

Suonano le nove a Luino e a Dumenza,
giù acqua a secchi, il grillo ha l’influenza.

Suonano le dieci in tutta la Lombardia,
il grillo fa uno sternuto e lo cacciano via.

Suonano le undici sui monti di Varese,
si sente dire che il grillo è tornato al suo paese.

Suona la mezzanotte a Castelletto Ticino,
ma il grillo non dorme e piange sul cuscino.

La morale della storia la sanno anche a Mombello:
anche il grillo era un tenore, se aveva l’ombrello.[/vc_toggle][vc_toggle title="Favole al telefono, Einaudi, Torino 1962 - Il palazzo da rompere" style="arrow"]Una volta, a Busto Arsizio, la gente era preoccupata perché i bambini rompevano tutto. Non parliamo delle suole delle scarpe, dei pantaloni e delle cartelle scolastiche: rompevano i vetri giocando alla palla, rompevano i piatti a tavola e i bicchieri al bar, e non rompevano i muri solo perché non avevano martelli a disposizione. I genitori non sapevano più cosa fare e cosa dire e si rivolsero al sindaco.
- Mettiamo una multa? - propose il sindaco.
- Grazie tante, - esclamarono i genitori, - e poi la paghiamo con i cocci.
Per fortuna da quelle parti ci sono molti ragionieri. Ce n'è uno ogni tre persone e tutti ragionano benissimo. Meglio di tutti ragionava il ragionier Gamberoni, un vecchio signore che aveva molti nipoti e quindi in fatto di cocci aveva una vasta esperienza. Egli prese carta e matita e fece il conto dei danni che i bambini di Busto Arsizio cagionavano fracassando tanta bella e buona roba a quel modo.
Risultò una somma spaventevole: millanta tamanta quattordici e trentatré, - Con la metà. di questa somma, - dimostro il ragionier Gamberoni, - possiamo costruire un palazzo da rompere e obbligare i bambini a farlo a pezzi: se non guariscono con questo sistema non guariscono più.
La proposta fu accettata, il palazzo fu costruito in quattro e quattro otto e due dieci. Era alto sette piani, aveva novantanove stanze, ogni stanza era piena di mobili e ogni mobile zeppo di stoviglie e soprammobili, senza contare gli specchi e i rubinetti. Il giorno dell’inaugurazione a tutti i bambini venne consegnato un martello e un segnale del sindaco le porte del palazzo da rompere furono spalancate.
Peccato che la televisione non sia arrivata in tempo per trasmettere lo spettacolo. Chi l’ha visto con i suoi occhi e sentito con le sue orecchie assicura che pareva - mai non sia! - lo scoppio della terza guerra mondiale. I bambini passavano di stanza in stanza come l’esercito di Attila e fracassavamo a martellate quanto incontravano sul loro cammino. I colpi si udivano in tutta la Lombardia e in mezza Svizzera. Bambini alti come la coda del gatto si erano attaccati ad armadi grossi come incrociatori e li demolirono scrupolosamente fino a lasciare una montagna di trucioli. Infanti dell’asilo, belli e graziosi nei loro grembiulini rosa e celesti, pestavano diligentemente i servizi da caffè riducendoli in polvere finissima, con la quale si incipriavano il viso. Alla fine del primo giorno non era rimasto un bicchiere sano. Alla fine del secondo giorno scarseggiavano le sedie. Il terzo giorno i bambini affrontarono i muri, cominciando dall’ultimo piano, ma quando furono arrivati al quarto, stanchi morti e coperti di polvere come i soldati di Napoleone nel deserto, piantarono baracca e burattini, tornarono a casa barcollando e andarono a letto senza cena. Ormai si erano davvero sfogati e non provavano più gusto a rompere nulla, di colpo erano diventati delicati e leggeri come farfalle e avreste potuto farli giocare al calcio su un campo di bicchieri di cristallo che non ne avrebbero scheggiato uno solo.
Il Rag. Gamberoni fece i conti e dimostrò che la città di Busto Arsizio aveva realizzato un risparmio di due stramilioni e sette centimetri.
Quello che restava in piedi del palazzo da rompere, il Comune lasciò liberi i cittadini di farne quel che volevano.  Allora si videro certi signori con cartella di cuoio e occhiali a lenti bifocali - magistrati, notai, consiglieri delegati – armarsi di martello e correre a demolire una parete o a smantellare una scala, picchiando tanto di gusto che ad ogni colpo si sentivano ringiovanire.
- Piuttosto che litigare con la moglie, - dicevano allegramente,
- piuttosto di spaccare i portacenere e i piatti del servizio buono, regalo della zia Mirina...
E giù martellate. Al ragionier Gamberoni, in segno di gratitudine, la città di Busto Arsizio decretò una medaglia con un buco d'argento

[/vc_toggle][vc_toggle title="Il libro degli errori, Einaudi, Torino 1964 - Il museo degli errori" style="arrow"]Signori e signore,
venite a visitare
il museo degli errori,
delle perle più rare.

Osservate da questa parte
lo strano animale gato:
ha tre zampe, un solo baffo
e dai topi viene cacciato.

Nel secondo reparto
c’è l’ago Maggiore:
provate a fare un tuffo,
sentirete che bruciore.

Ora tenete il fiato:
l’eterna «roma» vedremo
tornata piccola piccola
come ai tempi di Romolo e Remo.

Per colpa di una minuscola
la storia gira all’indietro:
questa «roma» ci sta tutta
sotto la cupola di San Pietro.[/vc_toggle][vc_toggle title="Favole al telefono, Einaudi, Torino 1962 - La donnina che contava gli starnuti" style="arrow"]A Gavirate, una volta, c’era una donnina che passava le sue giornate a contare gli starnuti della gente, poi riferiva alle amiche i risultati dei suoi calcoli e tutte insieme ci facevano sopra grandi chiacchiere.

“Il farmacista ne ha fatti sette”, raccontava la donnina.
“Possibile!”
“Giuro, mi cascasse il naso se non dico la verità, li ha fatti cinque minuti prima di mezzogiorno.”
Chiacchieravano, chiacchieravano e in conclusione dicevano che il farmacista metteva l’acqua nell’olio di ricino.

“Il parroco ne ha fatti quattordici”, raccontava la donnina, rossa per l’emozione.
“Non ti sarai sbagliata?”
“Mi cascasse il naso se ne ha fatto uno di meno”.
“Ma dove andremo a finire!”
Chiacchieravano, chiacchieravano e in conclusione dicevano che il parroco metteva troppo olio nell’insalata.

Una volta la donnina e le sue amiche si mesero tutte insieme, ed erano più sette, sotto le finestre del signor Delio a spiare. Ma il signor Delio non starnutiva per nulla, perché non fiutava tabacco e non aveva il raffreddore.
“Neanche uno starnuto,” disse la donnina. “Qui gatta ci cova”.
“Sicuro” dissero le sue amiche.
Il signor Delio le sentì, mise una bella manciata di pepe nello spruzzatore del moschicida e senza farsi scorgere lo soffiò addosso a quelle pettegole, che se ne stavano rimpiattate sotto il davanzale.
“Etcì!” fece la donnina.
“Etcì! Etcì!” fecero le sue amiche. E giù tutte insieme a fare uno starnuto dopo l’altro.
“Ne ho fatti di più io”, disse la donnina.
“Di più noi”, dissero le sue amiche. Si presero per i capelli, se le diedero per diritto e per traverso, si strapparono i vestiti e persero un dente ciascuna.

Dopo quella volta la donnina non parlò più con le sue amiche, comprò un libretto e una matita e andava in giro tutta sola soletta, e per ogni starnuto che sentiva faceva una crocetta.
Quando morì trovarono quel libretto pieno di croci e dicevano: “Guardate, deve aver segnato tutte le sue buone azioni. Ma quante ne ha fatte! Se non va in Paradiso lei non ci va proprio nessuno”.[/vc_toggle][vc_toggle title="La grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973" style="arrow"]La parola, intanto, precipita in altre direzioni, affonda nel mondo passato, fa tornare a galla presenze sommerse. «Sasso», da questo punto di vista, è per me Santa Caterina del Sasso, un santuario a picco sul lago Maggiore. Ci andavo in bicicletta. Ci andavamo insieme, Amedeo e io. Sedevamo sotto un fresco portico a bere vino bianco e a parlare di Kant. Ci trovavamo anche in treno, eravamo entrambi studenti pendolari. Amedeo portava un lungo mantello blu. In certi giorni sotto il mantello s’indovinava la sagoma dell’astuccio del suo violino. La maniglia del mio astuccio era rotta, dovevo portarlo sotto il braccio. Amedeo andò negli alpini e morì in Russia.
Un’altra volta la figura di Amedeo mi tornò da un «ricercare» sulla parola «mattone», che mi aveva ricordato certe basse fornaci, nella campagna lombarda, e lunghe camminate nella nebbia, o nei boschi, spesso Amedeo ed io passavamo pomeriggi interi nei boschi a parlare: di Kant, di Dostoevskij, di Montale, di Alfonso Gatto. Le amicizie dei sedici anni sono quelle che lasciano i segni più profondi nella vita. Ma questo, qui, non interessa. Interessa prendere atto di come una parola qualunque, scelta a caso, possa funzionare come parola magica per disseppellire campi della memoria che giacevano sotto la polvere del tempo.[/vc_toggle][vc_toggle title="C’era due volte il barone Lamberto, Einaudi, Torino 1978 - Incipit capitoli I e V" style="arrow"]In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio.
[…]

L’isola di San Giulio sembra fatta tutta a mano, come un gioco di costruzioni. Metro per metro, secolo dopo secolo, dandosi il cambio, uomini e altri uomini le hanno dato forma con il loro lavoro. Se si vede del verde, la natura non c’entra: sono i giardini delle ville. Non di vedono rocce, ma pietre, mattoni, vetrate, colonne, tetti. L’insieme è compatto come i pezzi di un rompicapo.
Di sera le differenze dei colori scompaiono, i profili si fondono, l’isola sembra un monumento in un sol blocco di pietra nera a guardia dell’acqua cupa. Da qualche finestra invisibile parte un raggio di luce, come un cordone gettato per tenere legata l’isola alla terraferma.

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